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CONTRATTO A TERMINE : la Corte Costituzionale si pronuncia.

La disciplina del contratto a termine ovvero anche contratto a tempo determinato, è una di quelle che, nell’ambito del diritto del lavoro, negli ultimi tempi è stata maggiormente oggetto di discussioni e confronti. A partire infatti dal Decreto Legislativo n. 368 del 2001 che ha profondamente innovato la disciplina, si sono succeduti sul tema, numerosi interventi legislativi e giurisprudenziali che hanno sovente complicato il quadro, rendendo assai complesso, per chi deve assumere una decisione pratica, valutare con sufficiente certezza pro e contro.

In questo contesto, certamente un passaggio chiarificatore, seppure con riferimento ad una singola questione, è fornito dalla recentissima sentenza della Corte Costituzionale la numero 303 del 2011 pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 16 novembre 2011 e rinvenibile per esteso nel sito della Corte Costituzionale (www.cortecostituzionale.it).

Uno dei punti controversi della disciplina in commento, era quello delle conseguenze che derivavano da un contratto a termine illegittimo per mancanza della forma scritta, ovvero, caso certamente più frequente, per mancanza delle ragioni giustificatrici. Su questo punto il Decreto Legislativo n. 368 del 2001 era completamente muto e ha conseguentemente generato un vasto contenzioso, risolto in vario modo dalla giurisprudenza.

Con l’art. 32 del cosiddetto “Collegato Lavoro” ossia della legge n. 183 del 2010 si è cercato di disciplinare la situazione prevedendo al comma 5 che “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto …” e al comma 7 che “Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge.”.

La disposizione è stata immediatamente portata all’esame della Corte Costituzionale perché ritenuta irragionevolmente riduttiva del risarcimento del danno già conseguibile dal lavoratore sotto il regime previgente. Va infatti ricordato come, prima della entrata del Collegato Lavoro, la ricostruzione giuridica del rapporto comportava per la giurisprudenza prevalente, oltre alla trasformazione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato, il diritto al risarcimento del danno pari alle retribuzioni perdute dalla messa in mora del datore di lavoro, detratto il cosiddetto aliunde perceptum ossia il reddito percepito dal lavoratore nel periodo in questione. Con la disposizione del Collegato Lavoro invece, questo risarcimento è contenuto al massimo in 12 mensilità, sostanzialmente quindi addossando al lavoratore il rischio (assai concreto) dei tempi del processo, che come tutti ben sanno può raggiungere, senza alcuna responsabilità delle parti, tempi assai lunghi.

La Corte Costituzionale con la citata recente sentenza n. 303 del 2011 ha dichiarato infondata la questione di legittimità sollevata e conseguentemente confermato il modello risarcitorio previsto dal Collegato Lavoro.

Ad oggi possiamo quindi affermare con sufficiente certezza, che gli effetti dell’accertamento giudiziale dell’insussistenza ovvero genericità delle causali legittimanti l’apposizione del termine, ferma restando la trasformazione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato, comportano la condanna del datore di lavoro al pagamento di una somma omnicomprensiva a titolo di risarcimento del danno che varia da 2,5 a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.


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