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PIOVE DI SACCO

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Lavoro dirigenziale e demansionamento

Con due ordinanze datate rispettivamente 17.12.2007 e 04.02.2008 il Tribunale di Trento, prima in sede di procedimento ex art. 700 c.p.c. e poi in sede di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. , si sofferma sul problema concernente la configurazione del rapporto di lavoro dirigenziale e sul relativo esercizio dello ius variandi datoriale.

 

Il caso, su cui si sono pronunciate le due ordinanze è il seguente: all’interno di un’azienda privata, il Consiglio di Amministrazione ha deliberato una ridefinizione delle deleghe e dei poteri e ha aggiornato la posizione del Direttore Generale, assunto in qualità di lavoratore subordinato con qualifica di dirigente. Con tale delibera societaria si è provveduto quindi a ridurre i limiti di spesa in capo al Direttore stesso e a revocargli la rappresentanza legale della società di fronte a terzi ed in giudizio, prevedendo tra i suoi compiti di proposta al C.d.A. la “sola” predisposizione dei piani operativi per l’attività sociali, in sostituzione delle precedenti “linee generali di indirizzo strategico, organizzativo ed operativo della società e delle controllate”.

Per tali motivi, il Direttore lamentava in giudizio, la violazione dell’art. 2103 c.c. per illegittimo esercizio dello ius variandi.

Con il provvedimento ex art. 700 cpc è stata disposta la riassegnazione al ricorrente dei poteri ante delibera riconoscendosi il demansionamento, mentre con l’ordinanza successiva in sede di reclamo, si è capovolto il primo giudizio e si è revocato il provvedimento cautelare.

 

La vicenda suggerisce alcune riflessioni sui limiti dello ius viariandi all’interno del rapporto dirigenziale.

Com’è noto, lo ius variandi consiste, per definizione, nel potere di modifica delle mansioni del presentatore, con l’attribuzione di altre equivalenti. Pertanto, l’art. 2103 c.c. regola il potere del datore di adattare alle mutevoli esigenze aziendali il contenuto della prestazione lavorativa.

Al fine di valutare la sussistenza di un corretto esercizio dello ius variandi da parte del datore, non basta appurare che le nuove mansioni siano incluse nel livello contrattuale nel quale il lavoratore è inquadrato, essendo anche necessario accertare, sulla base del contenuto, della natura e delle modalità di svolgimento delle stesse, la loro equivalenza a quelle precedentemente assegnate, intesa come corrispondenza alla specifica competenza tecnica del prestatore, così da salvaguardare il suo livello professionale, sia nell’ambito sociale che nel settore in cui opera.

Concepita in tale ottica, per un consolidato orientamento giurisprudenziale, la tutela predisposta dall’art. 2103 c.c., essendo riferita al “prestatore di lavoro” subordinato, si applica anche alla categoria dei dirigenti. Ai fini dell’applicabilità di tale istituto, non ogni modificazione dal punto di vista quantitativo delle mansioni affidate al lavoratore è sufficiente ad integrarlo, dovendo invece farsi riferimento all’incidenza concreta della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente, sulla sua collocazione nell’ambito aziendale, ed, in particolare, con riferimento, al dirigente anche la rilevazione del ruolo; inoltre, sono da considerarsi mansioni equivalenti solo nel caso in cui risulti tutelato il patrimonio professionale del lavoratore, nel senso che la nuova collocazione gli consenta di dinamica di valorizzazione della capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze.

 

La prima ordinanza in commento ha riscontrato pacificamente che i poteri e le deleghe facevano parte delle mansioni in capo al lavoratore e, perciò, la loro ridefinizione costituiva un’ipotesi di ius variandi illegittimo.

La seconda pronuncia, invece, ha diviso la figura del lavoratore in due parti, supponendolo legato alla società da un duplice vincolo giuridico: da una parte, una relazione di immedesimazione organica concernente i rapporti tra la società e i terzi, grazie alla quale gli atti compiuti dalla persona fisica che riveste la carica sociale, vale a dire quella di Direttore Generale, sono imputati direttamente alla società e, dall’altra, un rapporto di lavoro con qualifica dirigenziale intercorrente tra la società e l’investito della carica.

Tale divisione premetterebbe di legittimare l’operato della società in ragione del fatto che, nell’ipotesi di cui il C.d.A. assegna proprie prerogative ad altro organo della società, il rapporto che verrebbe direttamente segnato è quello di immedesimazione organica, e, pertanto, non sarebbe scalfito il rapporto di lavoro subordinato dirigenziale, in quanto deleghe e funzioni non rientrerebbero tra le mansioni del prestatore di lavoro.

Si tratta quest’ultima di una soluzione argomentativa raffinata ma forse troppo e dunque criticabile, poiché se non vengono qualificate come mansioni le deleghe che il Direttore Generale riceve dal CdA, allora, nella concretezza dei compiti, cosa rimane della mansione quale oggetto immediato del contratto di lavoro ?

 

 


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